Drimer, rapper trentino, ha pubblicato da poco il suo nuovo album “Crashtest”. In occasione dell’uscita del nuovo lavoro, in cui vediamo un nuovo Drimer, abbiamo fatto lui qualche domanda.
- Su Instagram hai scritto che “Crashtest” è resistere contro tutto e tutti. Quale è stata la cosa che ti ha messo più a dura prova nel percorso che ti ha portato a questo album?
Ciao ragazzi, e innanzitutto grazie a tutto lo staff di Rap Advisor per lo spazio.
A questa domanda mi sento di dare due risposte. Una, forse più scontata, non può che fare riferimento al lockdown vissuto lungo tutto l’anno scorso: io sono stato fortunato e non ho sperimentato il CoVid sulla mia pelle, ma le sue conseguenze (quarantena in primis) sì. Quei mesi di chiusura li ho fatti da solo nel mio piccolo monolocale a Milano, lontano dagli affetti e privato di guadagni e passione, i live. Certamente è stato di spunto per tanti brani anche significativi del disco, ad esempio Restare Solo, ma d’altra parte sarebbe ingiusto non confessare l’ansia e le insicurezze che quel periodo hanno causato, e di cui tracce come Restare Solo infondo parlano.
Dall’altra parte, ancora più lungamente rispetto al lockdown, c’è stato un percorso di modifica nella mia scrittura iniziato praticamente subito dopo l’uscita de La Prova Vivente, nel 2019. L’idea era quella di alleggerire i miei testi, mantenendo gli stessi contenuti e le stesse cose da dire ma permettendo ai brani di arrivare più direttamente e più semplicemente agli ascoltatori. Mi sento di dire che l’intento è stato raggiunto, ma solo dopo svariati mesi di lavoro e di brani scartati o rivisti. Un boccone spesso amaro da mandare giù, per un artista, ma che credo abbia garantito esattamente il risultato che ci eravamo posti.
- “Crashtest”, il tuo nuovo album, segue “La Prova Vivente” del 2019. In due anni l’evoluzione artistica di Drimer è sotto gli occhi di tutti. In un momento così difficile in tutto il mondo per l’industria culturale cosa ti ha influenzato maggiormente nella tua fame di sapere?
Quando scrivo un album, instauro subito un rapporto molto profondo con esso. Vedo ogni progetto come il capitolo di un film o di un libro, che va curato con grande cura affinché l’intera storia prosegua in maniera interessante. Per questo motivo, a sua volta, vedo ogni disco come una sfida: l’obbiettivo è far meglio di quello precedente, trovando un modo ogni volta originale di raccontare gli eventi e le sensazioni che hanno caratterizzato gli anni precedenti la sua uscita. In questo senso, Crashtest è figlio tanto di questa sfida a migliorarsi quanto di questi ultimi due anni resi un inferno dal CoVid. Per un sogno come questo, non c’è crashtest migliore di una pandemia. Se resiste a questo, allora ha le carte in regola per diventare realtà.
- Pezzi come “ALARM”, “Italia Marocco” e “Crashtest” raccontano il tuo cambiamento e la tua sperimentazione. La trasformazione del tuo sound parte da un’idea tua o dalla stretta collaborazione con un producer versatile come Ric de Large?
Come ho detto spesso, sono un artista molto poliedrico a cui piace tantissimo sperimentare suoni, stili e tipologie di scrittura diverse. Questa mia caratteristica si sposa molto bene alle musiche di Ric de Large, un produttore che viene originariamente dal mondo dell’elettronica e contamina costantemente le sue produzioni nel rap con tantissimi suoni diversi. Nell’ottica di far arrivare più direttamente quanto dico a chi mi ascolta, poi, anche il suono è stato ovviamente oggetto di una rivisitazione.
Mi sento però di dire che non c’è stato niente di calcolato: tra la fine del 2019 e la prima metà del 2020 ci siamo semplicemente chiusi in tanti studi diversi e abbiamo prodotto, scritto e registrato tanti brani diversi. Quelli che ci hanno convinto di più sono infine diventati Crashtest, grazie anche al lavoro della mia etichetta Pluggers che, differentemente da quanto non è accaduto ne La Prova Vivente, è stata molto più partecipe e presente durante le varie fasi di lavorazione del disco.
Per farvi capire: ALARM, che avete citato, nasce durante la puntata di Radio Raheem in Triennale dove Pluggers presenta il suo roster. I ragazzi mi sfidarono simpaticamente a fare freestyle sull’omonimo brano di Nic Sarno, una produzione super pesante dove avrei potuto trovarmi in difficoltà. Il risultato fu invece talmente figo che decidemmo di lavorarla fino a farne diventare il brano che conoscete. All’opposto, Italia Marocco nasce durante una pausa dalle session di registrazione del disco in studio da Ric. Stavamo ascoltando 21 Savage e io ho iniziato a fare freestyle ricalcandone flow e atmosfere. Il risultato ci è piaciuto talmente tanto che l’abbiamo tenuta, sistemata (senza cambiare nemmeno una barra, tutte totalmente improvvisate) e pubblicata. Per me la spontaneità è stata sempre la parola d’ordine.
- In “Tappeto Volante” dici che “nessuno ti apre le porte se non sei tu a chiuderle alle tue spalle”. In questo periodo ti è capitato di voltare le spalle al tuo passato personale per cercare nuove strade?
Voltare le spalle è un termine forte, che implica delle scelte eticamente o moralmente negative. Non è successo questo, ma le porte che ho chiuso a tante relazioni e idee che ho avuto in passato sono state tante, e necessarie per aprirmi il “portone” che Crashtest è stato per me. Vivo a Milano da più di due anni, ma quando mi chiedono da quanto tempo sto qui faccio sempre fatica a realizzare che sia già trascorso così tanto tempo: soprattutto l’anno scorso, per ovvi motivi, mi è sembrato quasi non contare. Ed è stato nei momenti peggiori del 2020 che ho capito che c’erano porte che dovevo chiudere e legami che dovevo tagliare. Ho sempre lavorato tanto per la mia musica, ma spesso mi sono ritrovato bloccato dal mancato riconoscimento – o peggio dalla mancata riconoscenza – di persone in cui credevo molto e di un ambiente per cui mi sento di dire ho fatto tanto. Crashtest nasce anche da questa presa di coscienza, e dalla voglia di far passare attraverso l’impatto tutte queste situazioni, così da farne uscire ancora in piedi solo quelle che meritassero davvero, quelle sulla base delle quali costruire i passaggi futuri della mia carriera negli anni a venire.
- In “’020 Bonnie and Clyde” citi “La Cura” di Battiato, che è scomparso pochi giorni fa. Cosa ti ha insegnato artisticamente Battiato?
Non salterò sul treno del morto professandomi ciò che non sono (come molti hanno fatto), e cioè un fan sfegatato di Battiato. Se ho delle lacune che devo riempire, tra queste di certo v’è la musica d’autore italiana, che adoro ma della quale conosco poco più della superficie. Di Battiato e delle sue canzoni che ho ascoltato negli anni, La Cura su tutte, ho sempre apprezzato le atmosfere quasi oniriche, filosofiche, la ricerca nella scrittura e il messaggio alle volte anche criptico dei testi. Quando ho scritto ‘020 Bonnie & Clyde, che è a tutti gli effetti la mia prima canzone d’amore “attuale” (prima avevo sempre scritto di rapporti difficili e ormai conclusisi), la citazione a La Cura sulla fine della seconda strofa mi è venuta automatica, come supremo esempio dell’abnegazione che provo per la donna a cui è dedicata. Mi piaceva anche l’idea di citare un pezzo storico della canzone d’autore italiana in un brano è ispirato a un altro pezzo storico ma della canzone Hip Hop d’oltreoceano, ovvero ’03 Bonnie & Clyde di Jay-Z e Beyonce. Peraltro, nel disco ci sono diverse altre citazioni alla musica italiana di un certo tipo, da Extraterrestre di Eugenio Finardi a Ci Vorrebbe un Amico di Venditti (entrambe presenti in Lex Luthor).
- “Come Fabri Fibra” è anche una reazione al linguaggio e all’immaginario più politicamente corretto del rap e in generale della società di questi giorni?
Di più: Come Fabri Fibra è una reazione sia al linguaggio eccessivamente ripulito di cui parli, sia a quello fintamente trasgressivo e violento che domina il mondo della musica odierna. Ormai sento quasi solo brani che non dicono nulla di scomodo, o che peggio fingono di dire qualcosa di scomodo giocando in realtà su affermazioni semplicistiche utilizzando le quali non si può sbagliare mai. Mi manca, io che ci sono cresciuto, il rap trasgressivo, arrogante e ciononostante intelligente dei Fabri Fibra, degli Eminem di qualche anno fa. Come Fabri Fibra, prima ancora di essere un tributo al massimo esponente di questo tipo di scrittura in Italia, è infatti un brano che in superficie vuole risultare, appunto, superficiale, ma che in realtà in profondità tocca temi importanti e a mio giudizio non scontati.
Sentire barre come “Diploma da ragioniere con i soldi so cosa fare, perciò se lui me la chiede la fattura non la so fare” oppure “C’è la luna e guardi il dito medio ancora, sarebbe meglio in gola, al governo Povia” fanno sicuramente ridere, di primo acchito, ma per chi voglia approfondirle dicono in realtà più di quanto non si creda. Insomma: “C’è molto più di quanto non appaia, e non è che ciò che appaia sia poco”, come recita la famosa citazione di un celebre film.
- Nell’album, come il tuo solito, non rinunci a dare anche una lettura politica. La difficile situazione politica attuale ha stimolato in te anche nuove riflessioni da quel punto di vista?
Ovviamente, purtroppo! La politica è questo, in Italia: un inesauribile ispirazione a scrivere! Sinceramente, ti confesso che sarò felice quando le dichiarazioni e i pensieri dominanti della nostra classe politica non m’ispireranno alcun testo, se mai accadrà.
Dopo Noi Non Vi Vogliamo 1 e 2, in molti mi hanno visto un po’ come il paladino del rap a sfondo politico-sociale tra i rapper di nuova generazione. Come ho detto spesso, è un’idea che mi onora, ma che non voglio prenda il sopravvento sul resto della mia produzione artistica. Mi piace, piuttosto, pensare che i riferimenti di questo tipo possano essere una costante all’interno dei miei testi insieme a tante altre. Non a caso si possono ritrovare in tanti brani diversi e a prima vista, come dicevo parlando di Come Fabri Fibra, insospettabili.
La canzone che rappresenta invece pienamente questa cifra stilistica è Collane, il penultimo brano dell’album che idealmente ne chiude il viaggio. Anche qui, comunque, non c’è stato nulla di calcolato: le atmosfere cupe e insieme epiche del beat hanno ispirato il testo, portandomi a pensare e quindi a parlare della difficile situazione che una persona normale vive, tutti i giorni, in un paese fatto di mille storture e paradossi come l’Italia.
- Il tuo album è uscito nello stesso periodo di quello che hai spesso definito il tuo idolo: J.Cole. Cosa pensi del suo nuovo lavoro?
The Off-Season è un album che un fan di J Cole non credo si sarebbe aspettato e, devo dire, inizialmente mi ha lasciato spiazzato (anche perché, non so per errore suo o nostro, in molti la sera dell’uscita hanno ascoltato una penosa censored version ahah!). Al di là di ciò, per J Cole si è trattato per la prima volta da anni di un progetto senza un apparente concept di fondo, caratterizzato peraltro da un rap assai più auto-celebrativo e strumentali e suoni molto più moderni che non in passato. Riascoltandolo più volte, comunque, devo dire che mi è arrivato abbastanza in fretta. Non farò lo spiegone del disco – c’è un ottimo articolo di Riccardo Primavera per Outpump al quale rimando chi interessato – ma mi limiterò a dire che, alla fine, quest’album si rivela forte proprio perché differisce da quelli precedenti (e ciò chiude un po’ il cerchio con quanto dicevo ad inizio intervista parlando dei miei). The Off-Season in fondo non è una semplice dimostrazione di stile ma, soprattutto, un potente statement su quello che J Cole è divenuto dopo anni di carriera ad altissimi livelli. E devo dire che alla fine ciò che ho visto e sentito mi è piaciuto tantissimo.
Intervista di Matteo Pinamonte
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